Il 2019 si è chiuso con la venticinquesima missione del progetto Madagascar, che due volte all’anno vede impegnati i soci piemontesi di Medici Volontari Italiani, insieme a Le Piccole Serve del Sacro Cuore di Gesù, in una trasferta nel paese africano, a Ambatondrazaka. Qui è stato realizzato un attrezzato ambulatorio oculistico che si si occupa di visite, interventi chirurgici, somministrazione di farmaci, realizzazione di occhiali (da parte di giovani locali opportunamente formati). Questa volta il bilancio è stato di 358 visite e 94 interventi, che portano a 7783 visite e 1562 interventi l’attività complessivamente svolta nei dodici anni. Numeri davvero significativi, che certificano il successo di un progetto di volontariato cresciuto anno dopo anno, fino a diventare ciò che è oggi: un punto di riferimento per le comunità locali e un apprezzatissimo presidio medico.
La missione numero 25 è un traguardo importante, in un cammino che naturalmente continua. Ce ne parla il responsabile del team oculistico, il nostro socio Carlo Passeggi
Come per i matrimoni che durano da tempo e che hanno raggiunto questo traguardo in armonia e, spesso, con piena soddisfazione, mi è venuto istintivo chiamare la nostra venticinquesima missione in questo modo.
Venticinque missioni: 1562 interventi, 7783 visite, 45 partecipanti. Numeri importanti per un progetto in Madagascar e che forse lo sarebbero anche per un qualunque progetto nel cosiddetto
“terzo mondo”. In questi dodici anni siamo riusciti a raggiungere un livello qualitativo eccellente.
Questo non è solo un vantaggio per i pazienti, ma anche per noi stessi. Ricordo le prime missioni in cui operavamo in una sala operatoria caldissima, con un piccolo microscopio, su un'unica barella ad altezza fissa, seduti su sgabelli tremolanti, con la luce elettrica e l’acqua disponibili ad intervalli irregolari e imprevedibili, lunghi tempi di attesa per la sterilizzazione dei ferri tra un paziente e l’altro e mille altre difficoltà.
Oggi possiamo contare su una sala con due veri letti operatori comodi e regolabili, due microscopi che farebbero invidia in molte sale italiane, una disponibilità di ferri chirurgici per far fronte a qualunque necessità, un gruppo elettrogeno in grado di fornire 15Kw di potenza che sono sufficienti a garantire il funzionamento delle due sterilizzatrici, del condizionatore, del grande frigo e di tutte le altre apparecchiature (senza interruzioni e senza i pericolosi -per le attrezzature- sbalzi di corrente).
Tutto questo, naturalmente, ci ha permesso di migliorare qualità e quantità del servizio fornito. E così siamo passati dalle 170 visite e 17 interventi della prima missione alle 358 visite e 94 interventi di quest’ultima. E la sera, quando il lavoro è finito, abbiamo la possibilità di fare una doccia calda, con acqua in abbondanza a qualunque ora grazie ad un serbatoio da 5000 litri che garantisce la fornitura anche alle suore.
Sono passati 12 anni dalla prima volta che siamo andati ad Ambatondrazaka. 12 anni in cui abbiamo fornito il nostro aiuto ad una popolazione che vive in una regione poverissima, lontana da qualsiasi forma di assistenza sanitaria degna di essere chiamata tale. Ci è capitato (e purtroppo ci capita ancora) di visitare o dover operare pazienti con patologie di una complessità che in Italia non avremmo visto neanche sommando tre vite professionali. Eppure ormai ci siamo abituati ad affrontare queste situazioni: pazienti che si presentano alla nostra attenzione fiduciosi ma quasi rassegnati, come se quello che è loro capitato fosse dovuto ad un inevitabile destino, increduli quando dopo pochi giorni vedono che il loro problema è stato risolto.
In quest’ultima missione, ad esempio, abbiamo operato due giovanissimi: una ragazza di sedici anni affetta da cataratta giovanile bilaterale, già operata all’occhio sinistro ad Antananarivo (con perdita della funzione visiva), e un ragazzino di 14 anni con una cataratta traumatica e dolente (si era bucato l’occhio con una canna). Quando il giorno dopo sono stati sbendati…è proprio il caso di dire che non credevano ai loro occhi!!
Così come i due lebbrosi, marito e moglie, che nessuno aveva voluto operare per paura del contagio, anche se ormai non erano più infettivi e che ora potevano riabbracciarsi guardandosi finalmente in viso.
Ma ci è capitato anche di vedere un numero impressionante di persone (spesso giovanissimi) con un occhio solo, che avevano perso l’altro per traumi o infezioni e che purtroppo non avevano avuto la possibilità di essere curati. Sono persone che accettano la malattia con una rassegnazione a noi quasi incomprensibile, persone che rinunciano, o sono costrette a rinunciare, alle cure soprattutto per mancanza di soldi. Per questo motivi quasi non credono che noi prestiamo la nostra opera gratuitamente.
Gli episodi che meriterebbero di essere ricordati sono tantissimi e ci si potrebbe scrivere un libro…se fossi capace di farlo. Ma è comunque bellissimo il sorriso degli anziani operati che, dopo anni di cecità, tornano a vedere. Ognuno considera questo nostro lavoro in maniera diversa, qualcuno con ammirazione qualcun altro con perplessità. Non è difficile immaginare che potremmo essere utili anche qui in Italia. In fondo, anche qui, c’è bisogno di aiuto e MVI fa un’opera grandiosa a Milano. Noi abbiamo deciso di dedicare parte del nostro tempo e del nostro denaro a chi non ha alternative. Se non andassimo là, molti di quei 1562 sarebbero rimasti ciechi o forse sarebbero morti ancora più poveri perché avrebbero venduto tutto quel poco che possedevano (una mucca o una scorta di riso) nel tentativo di farsi operare…spesso senza il risultato sperato.
In questa ormai lunga avventura (o forse è meglio definirla meravigliosa storia) ho avuto la fortuna di essere affiancato da persone eccezionali. Persone che nei giorni di permanenza nella missione si sono impegnate al massimo, dimostrando un senso di sacrificio e di adattamento elevatissimi affiancati da una professionalità indiscussa. A loro va il mio ringraziamento dal più profondo del cuore. Gli anni stanno passando veloci per tutti e sarei molto felice di poter contare su qualcuno che potesse portare avanti questo progetto e scrivere, un giorno, una relazione su “LA MISSIONE D’ORO”.